PIRANDELLO: IL "PROFETA DEL CAOS
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PIRANDELLO “FIGLIO DEL CAOS”
Luigi Pirandello nacque a Girgenti (l’odierna Agrigento) il
28 giugno del 1867, in campagna, nella località denominata CAOS. Pirandello
ironizzò spesso sul suo luogo di nascita apostrofandosi come “figlio del Caos”.
I genitori, Stefano Pirandello e Caterina Ricci-Gramitto,
ebbero un ruolo importante per la formazione del pensiero politico di
Pirandello. La sua famiglia era apertamente ANTI-BORBONICA: i parenti della
madre furono mandati in esilio a Malta, proprio per questo motivo, e il padre
partecipò come garibaldino all’IMPRESA DEI MILLE.
La famiglia possedeva miniere di zolfo.
Pirandello scrisse a soli dodici anni una tragedia in cinque
atti, rappresentata grazie all’aiuto delle sorelle e degli amici.
Nel 1880 il padre fu vittima di frode e a causa del dissesto
economico la famiglia si trasferì a Palermo. Nel 1885 un nuovo trasferimento
portò la famiglia a Porto Empedocle, mentre Pirandello restò a Palermo per
continuare gli studi; in seguito raggiunse i suoi genitori e le sorelle. A
Porto Empedocle prese consapevolezza della dura realtà delle solfatare… e si
iscrisse a Legge e a Lettere all’Università di Palermo. Si trasferì poi a Roma
per studiare Lettere: ospite a casa dello zio Rocco; lì scrisse opere teatrali andate
però perdute. Precedentemente fu anche fidanzato con una sua cugina… ma il
legame fu presto rotto.
Il periodo romano non fu facile a causa di alcuni contrasti
con il preside di facoltà, il latinista Onorato Occioni; per questo motivo
Pirandello si trasferì in Germania all’Università di Bonn.
A Bonn si laureò con successo nel 1891 in Filologia Romanza,
con una tesi sul dialetto siciliano.
Esordì come poeta nel 1889 con la raccolta Mal giocondo; nel 1891 pubblicò,
invece, la raccolta Pasqua di Gea.
PIRANDELLO A ROMA. PIRANDELLO DIVENTA UN “MARITO”
Nel 1892 Luigi Pirandello si trasferì a Roma e conobbe Luigi
Capuana; quest’ultimo lo spinse verso la narrativa. Nel 1894 Pirandello
pubblicò la prima raccolta di novelle: Amori
senza amore. Del 1901 fu il primo romanzo: L’Esclusa.
Il 1894 fu un anno importante perché il 27 gennaio lo
scrittore si unì in matrimonio, a Girgenti, con Maria Antonietta Portulano. Tra
il 1895 e il 1899, a Roma, nacquero i tre figli della coppia: Stefano, Lietta e
Fausto.
Nonostante Pirandello si fosse avvicinato definitivamente
alla narrativa, pubblicò altre raccolte di poesie: Elegie Renane (1895), Zampogna
(1901); e Fiori di chiave (1912), che
fu l’ultima.
Nel 1902 uscì il romanzo Il
Turno e Pirandello, nel frattempo, iniziò a collaborare con riviste e
giornali. Nel 1897 iniziò a lavorare come insegnante presso l’Istituto
Superiore di Magistero.
Nel 1898 stampò sulla rivista «Ariel» il PRIMO TESTO TEATRALE: L’epilogo, ribattezzato poi La morsa.
IL DRAMMA
Nel 1903 le miniere della famiglia di Pirandello si
allagarono. L’evento fu un dramma non solo per la perdita di vite umane ma
anche per il devastante impatto sugli interessi economici del padre e del
suocero dell’artista. La dote della moglie, investita nelle miniere, andò in
fumo. Maria Antonietta Portulano cadde così in un grave esaurimento nervoso che
la accompagnò per tutta la vita. Lo stesso Pirandello ne uscì distrutto… e
pensò al suicido.
Lo scrittore e drammaturgo dovette, però, utilizzare tutto
il suo ingegno e la sua forza per reagire e far tornare in una “forma” stabile
la vita sua e della famiglia.
Pirandello iniziò a dare lezioni private e intensificò le
collaborazioni editoriali.
Nel 1904 IL FU MATTIA
PASCAL, probabilmente il frutto del grave periodo appena vissuto, fu
pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia». Il romanzo attirò molto
l’attenzione… infatti l’editore TREVES decise di occuparsi della pubblicazione
delle opere di Pirandello.
La PAZZIA e le MALATTIE NERVOSE… e Pirandello trasse, così,
dalla vita… tutti i significati travolgenti e stravolgenti che caratterizzarono
la sua profonda rivoluzione narrativa, sociale e “universale”.
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L’UMORISMO?
Per finalità concorsuali (voleva infatti ottenere una
cattedra universitaria), nel 1908, Pirandello scrisse i saggi Arte e scienza e L’umorismo.
L’umorismo è assai
importante per comprendere la “percezione” dell’autore. Pirandello,
innanzitutto, distingue IL COMICO e L’UMORISMO.
IL COMICO è “l’avvertimento del contrario”, mentre
L’UMORISMO è il “sentimento del contrario”. L’esempio presentato è quello di
una vecchina agghindata come una giovane donna. Guardandola… all’inizio
avvertiamo l’evidente contrasto tra l’età della donna e il suo atteggiarsi:
primamente il “riso” è la reazione istintiva. In un secondo momento, se ci si
ferma a riflettere sulle eventuali motivazioni del comportamento della donna…
magari la voglia di conquistare un marito indifferente o uno slancio dai
risvolti anche più assurdi e dolorosi… ecco che non ridiamo più. L’umorismo è amaro,
sarcastico… non nero ma tinto di un grigiore sospeso tra l’interrogativo,
l’inafferrabilità che diventa anche consapevolezza alla maniera pirandelliana.
Nell’UMORISMO c’è del TRAGICO: il contrario e il
confronto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere (poi per chi?) è la chiave
per comprendere, poi, l’opposizione tra VITA e FORMA, tanto caratteristica dei
personaggi rappresentati nelle opere che mostrano il vero marchio dell’autore.
E parlare di marchio è bizzarro ma assolutamente evocativo quando si parla di
uomini “non morti”, donne tornate in vita… e unità di un Io che si smembra fino
a diventare NESSUNO.
Questo punto è molto importante anche per capire il testo qui
scelto.
Sempre nel 1908, Pirandello, fu nominato come ordinario
dell’Istituto Superiore di Magistero.
Nel 1910 pubblicò, sulla «Rassegna Contemporanea», I vecchi e i giovani. Il 9 dicembre 1910
furono rappresentati, al Teatro Metastasio di Roma, La morsa e Lumie di Sicilia.
Sempre nel 1910 venne alla luce la raccolta di novelle La vita nuda. Altre novelle, poi, furono
pubblicate… tra cui La trappola, per
Treves, nel 1915. In soli tre anni, Pirandello scrisse circa cinquanta novelle.
IL 1915
Nel 1915 venne pubblicato il romanzo Si gira, che divenne poi, nel 1925, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Pirandello uscì sempre di più dalla pagina… per andare IN
SCENA.
In quell’anno iniziò l’intensa attività teatrale.
Importanti furono gli incontri con i catanesi Nino
Martoglio, autore, e Angelo Musco, attore.
Nel 1916, Musco portò al successo Pensaci, Giacomino! Spinto da questo esito, Pirandello scrisse
altre opere teatrali: Il berretto a
sonagli e Liolà, presentati
anch’essi dal Musco. Dal teatro dialettale si passò, pian piano, all’”arte
pirandelliana” e al metateatro.
Il 1915 fu, però, anche un anno di profonde tragedie per
Pirandello: la madre morì e il figlio andò in guerra volontario e fu fatto
prigioniero dagli austriaci; inutili i tentativi di farlo liberare… il giovane
tornò a casa gravemente malato.
È da ricordare che l’autore era fortemente interventista: vanno a
ciò ricondotti i sentimenti anti-borbonici della famiglia d’origine. Pirandello
mal tollerava l’ingerenza straniera e sperava che la guerra portasse finalmente
una risoluzione per i problemi del meridione.
Nel frattempo, le
condizioni di salute della moglie si fecero sempre più gravi; Pirandello
continuò comunque il buon mestiere di marito e proseguì ad accudirla.
Nel 1919, Maria Antonietta Portulano fu, però, internata… fino alla fine dei suoi giorni.
Lo SCOSSONE de I SEI
PERSONAGGI
Il 9 Maggio del 1921, Sei
personaggi in cerca d’autore fu messo in scena al Teatro Valle di Roma
scatenando una fiumana di critiche… Pirandello, che assisteva alla
rappresentazione, dovette andar via per sfuggire al linciaggio. La sua opera
ottenne, poi, il successo meritato, a Milano.
Da quel momento cadde il sipario davanti al sipario.
L’ascesa di Pirandello non si arrestò: nel 1922 l’editore Bemporad
pubblicò il primo volume delle Novelle
per un anno.
LA DISCUSSA “ADESIONE “ AL FASCISMO
Nel 1924, dopo il tragico delitto Matteotti, Pirandello aderì al
Fascismo dopo un accorato telegramma inviato a Mussolini. Le motivazioni non
vanno viste con occhio “moderno”, con il “senno di poi”. Ricordiamo che
Pirandello era profondamente critico verso la condizione italiana, specialmente
del mezzogiorno: il suo va considerato come un “voto di protesta”, un tentativo
verso un “nuovo” che si professava difensore del popolo.
In realtà non mancarono contrasti con il partito: Pirandello
mantenne sempre un atteggiamento assolutamente ambivalente. A tratti si
professava “apolitico”… e si racconta anche di una discussione dinanzi al
Segretario Nazionale del Partito, davanti al quale Pirandello avrebbe
stracciato la sua tessera (per questa informazione si rimanda all’introduzione
delle Novelle per un anno della Utet,
del 1956, e al racconto di Corrado Alvaro riportato da G. Giudice).
La rottura formale, però, non avvenne mai. A tutto questo vanno
ricondotti anche interessi più pragmatici: Pirandello fondò la Compagnia del
Teatro d’Arte di Roma, la quale fu fortemente finanziata dal partito.
La Compagnia portò, per tre anni, l’arte pirandelliana in tutto il
mondo: fino a Broadway. Nacque così un grande sodalizio sentimentale e
artistico: il profondo rapporto con l’attrice Marta Abba.
Della Abba
sono conservati diversi ritratti nella casa museo che diede i natali a
Pirandello.
Si dice
che il rapporto fosse strettamente platonico.
GLI ULTIMI ANNI E L’OPERA SIMBOLO DELLA VISIONE PIRANDELLIANA
Tra il 13 dicembre 1925 e il 13 giugno 1926 fu pubblicato, a
puntate sulla rivista «La Fiera Letteraria», Uno, nessuno e centomila.
La concezione e le prime bozze risalirebbero, in realtà, agli anni
del saggio sull’umorismo. L’opera può essere considerata un
“romanzo-testamento”: la sintesi della concezione di Pirandello sull’esistenza
e l’individuo viene mostrata senza filtro alcuno. Al momento, l’opera non
attirò particolare attenzione, oggi è uno dei testi più tradotti e letti della
letteratura italiana.
PUBBLICI RICONOSCIMENTI, “L’ORO PER LA PATRIA” e LE ATTENZIONI
DELL’O.V.R.A.
Nel 1929, Pirandello diventò membro dell’Accademia Italiana:
istituzione culturale fondata dal regime, che fu in attività tra il 1929 e il
1944. In realtà l’Accademia fu istituita con il Regio Decreto Legge del 1926;
il ritardo nella messa in opera può ricondursi ai repentini cambiamenti interni
al fascismo… da partito popolare e antiretorico si stava trasformando in una capillare
rete di controllo che coinvolse progressivamente anche il regno della cultura.
Nel 1934 fu assegnato a Pirandello il premio Nobel, per “il suo
ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”. Il premio, è
da sottolineare, venne guadagnato… appunto… per il teatro.
Nel frattempo il regime chiedeva il famigerato “ORO PER LA
PATRIA”: Pirandello cedette volontariamente la medaglia ricevuta per il Nobel.
Nonostante questo non si deve pensare all’autore come a un intellettuale
“fascista”. Niente in Pirandello era in linea con il partito: l’uomo
rappresentato era il fantoccio del vuoto dell’uomo borghese, la sicurezza e
volontà di potenza non trovavano spazio fra tremolanti coscienze ridicole e
senza un’identità. Per il regime Pirandello era un “disfattista”; alcune sue
opere incontrarono l’opposizione di Mussolini stesso. Mentre l’autore donava la
sua medaglia del Nobel… intanto… l’O.V.R.A. (la Polizia Segreta fascista) lo
teneva d’occhio.
Pirandello iniziò a viaggiare moltissimo; e questo distacco non va
visto solo come un fortuito caso portato dalla fama e dagli impegni artistici.
Mussolini non riuscì mai a “inquadrare” Pirandello, quest’ultimo
non entrò mai nella piena consapevolezza di ciò che avrebbe significato il
fascismo, oscurato da un sentimento malinconico di rivalsa verso le angherie
straniere subite dal paese.
PIRANDELLO DALLA RESA AL CINEMA ALLA MORTE
Inizialmente Pirandello si mostrò critico verso il cinema: fino ad
arrivare ad apostrofare ciò che vedeva sullo schermo come delle “larve
evanescenti”. Successivamente, in una lettera a Marta Abba del 1930 scrisse: “
Bisogna orientarsi verso una nuova forma d’arte: il film parlato. Ero
contrario. Mi sono ricreduto”. Ricordiamo che nel 1929 era avvenuta una delle
più grandi rivoluzioni della storia culturale mondiale: l’avvento del cinema
sonoro.
Pirandello iniziò così a lavorare alla trasposizione
cinematografica de Il fu Mattia Pascal;
durante le riprese a Cinecittà si ammalò di polmonite. Morì nella casa romana
il 10 dicembre 1936.
UNO, NESSUNO
E CENTOMILA
Ph. Francesca Lucidi. Ebook annotato edito da Giulio Verne Editore
LE “TRAME”
Vitangelo Moscarda vive un’esistenza piana, uguale a se stessa
nell’immobilità di una condizione agiata e di un matrimonio contratto in
giovane età. Il padre possedeva una banca e dopo la morte lascia al figlio un
cospicuo patrimonio e la fama di “usuraio”. Vitangelo non ha la minima
percezione della sua vita, del suo posto in società, di come la gente lo
ritenga un usurario tanto uguale quanto diverso da suo padre. Gengè, perché è
così che la moglie Dida lo chiama, porta a spasso la regal cagnolina borghese
mentre la sua sposa lo coccola con buffetti verbali indirizzati a quel “suo
Gengè” così sciocco, teneramente sciocco… almeno così pare a Dida. Tutto sembra
filare più o meno liscio fino a che a Vitangelo viene fatto notare il suo naso
storto, proprio da quella moglie che gli gira intorno con i suoi abiti chiari e
svolazzanti e le sue parole smielate e vuote. Le parole che Dida dice questa
volta, invece, pesano come un macigno sulla sopita coscienza di Vitangelo. Una
discussione apparentemente vacua è l’inizio del romanzo e l’avvio del motore
rombante di una potenza distruttiva che metterà a nudo gli scheletri delle male
fondamenta di una umanità sciocca, vaga, evanescente.
Vitangelo inizia a non riconoscersi più per come si era visto: comincia
a pensare che quel NASO è ciò che si pone davanti agli “altri”, finanche
sovrastando l’immagine dei suoi pensieri o azioni. Qualunque cosa lui fa o
pensa, ha quel naso… quei capelli… quella postura storta, quella gamba sgraziata.
Dida ha fatto le ennesime sciocche considerazioni al suo sciocco Gengé; Gengé
si mostra DAVVERO, PER LA PRIMA VOLTA, come altro rispetto a Vitangelo… che poi
è anche un “Moscarda”, il che significa “usuraio”.
Il protagonista non ha mai preso una decisione nella sua vita: due
fidatissimi amici e soci amministrano la banca e i suoi affari… la moglie gli
dice come passare il tempo scandendo la giornate con le passeggiate della
cagnolina Bibi… la gente conosce esattamente la famiglia “Moscarda” e vede
Vitangelo come il prodotto perfetto di una nascita che il protagonista, come
tutti noi, non ha scelto. I poveracci occupano
diversi spazi degli immobili e delle terre di Richieri appartenenti a questo
“usuraio” che non sa niente di numeri e contratti. Lui ha vissuto tutto come se
non esistesse altro, anzi come se tutto fosse una sola realtà nota… dopo aver
visto il suo naso storto, però, Vitangelo non si riconosce più.
La pazzia inizia a farsi strada in quella mente infantile e
sciocca (come è sciocco questo Gengè!).
Inizialmente Vitangelo si sente quasi un privilegiato: ha scoperto una verità
che pare farlo sentire come il depositario dell’essenza dell’universo… questo,
però, dura assai poco. Si passa subito all’ansia, al malessere e alla brama di cogliere
nello specchio quell’Io autentico che a lui è sempre sfuggito. Vitangelo prova
a vestirsi delle nuove consapevolezze andando in giro ad additare i “difetti”
altrui, come a voler diffondere il VERBO. Nulla però calma la crescente FOLLIA
di quest’uomo che adesso ha finalmente pensieri propri, ma proprio nel momento
in cui si rende conto che ogni pensiero o immagine delle cose o di se stessi è
solo una parcellizzazione della parcellizzazione infinita che occorre negli
occhi degli altri: ognuno vede una realtà con i propri occhi pensando che
quella sia la verità assoluta. Nasciamo in un contesto che non scegliamo e
veniamo visti in modi che non possiamo vedere a nostra volta.
La PAZZIA di Vitangelo si fa RIVOLUZIONE… il protagonista inizia
così a smantellare tutta la sua realtà, non tanto sua poi, e attira su di sé
prima l’incredulità e poi l’ira di TUTTI.
La rivoluzione poi si fa violenza: Vitangelo non contiene più il
flusso dei suoi ossessivi pensieri che si chiudono su se stessi in una
girandola impazzita. La cagnolina Bibi subirà le battute finali di quella
coscienza letteralmente esplosa.
Intorno a Vitangelo la vita si mostra e si ritrae, come anche
l’identità. Alla fine cosa resta di un essere che non è Vitangelo, non è più
Moscarda e neanche un Gengè? Pirandello una soluzione la mostra… che sia
confortante o meno è da “vedere”.
PIRANDELLO: UN PROFETA CHE “SCRIVE MALE”
Luigi Pirandello mette in crisi i critici… ve lo posso assicurare…
e paradossalmente viene imposto agli studenti italiani alle scuole superiori,
anzi addirittura alle scuole medie. Lo stile dell’autore non è così digeribile
o avvicinabile da qualsivoglia individuo “strutturato”, figuriamoci da giovani
a cui vengono imposte letture che mettono in discussione i dettami delle
antologie e dei manuali di narratologia.
Pirandello è un “classico”; al contempo è un antico luogo comune
che l’autore scriva MALE.
Se pensiamo al canonico punto
di vista, si può da qui partire per l’analisi destrutturante dell’ideologia
e dei modi pirandelliani. L’autore è un relativista: non vi è una realtà
univoca come non vi è un solo modo di vedere e un filo logico che riconduca “la
storia” a una visione identificabile, da abbracciare per ottenere UNA verità.
Sicuramente Pirandello deve molto al verismo… ma è altrettanto
certo che l’oggettività di una corrente che scandaglia e mostra gli eventi
nella loro materialità e manifestazione, potremmo dire reale… è quanto di più
lontano dal SOGGETTIVISMO ASSOLUTO dell’autore.
La mano dell’autore non è nascosta: i testi si mostrano fieramente
come “costruiti”, come lo è la realtà presentata al lettore. Il verismo muove
dalla certezza di eventi raccontati come sono, Pirandello impone la verità
RELATIVA; il narratore non è attendibile, proprio questa è la VERITÀ che si può
trarre leggendo i testi pirandelliani. I personaggi ragionano e ragionano. Non
si può parlare di TRAMA ma di TRAME sviluppate e avviluppate nei gorghi dei
monologhi.
La narrazione in prima persona è considerata limitante e difficile
da intraprendere, quando si scrive un romanzo. La difficoltà a mantenere la
narrazione sull’unico filo dell’Io
narrante non è cosa facile… ma è ancor più difficile cedere a patti con il
profetico multifocale raccontare di
Pirandello.
Vitangelo parla per se stesso… che è un IO non univoco; riesce
però anche a prevedere e a parlare secondo le molteplici realtà degli “altri”.
I pensieri degli astanti in quella vita ridicola sono, alla fine, ben intesi
dal protagonista che a volte ne viene sopraffatto ma altre volte ne anticipa i
risvolti e le manifestazioni.
La focalizzazione pirandelliana è in continuo movimento: la vita,
per l’autore, è un flusso in moto continuo… ci sfugge perché noi siamo
invischiati nella FORMA.
L’ARTE è FINALIZZATA A SCOPRIRE LA CONDIZIONE UMANA; rispetto al
verismo, però, la realtà non è una e si alterna tra l’occhio del comico a
quello del cinico umorismo… della riflessione sul contrario (come abbiamo già
spiegato parlando del saggio L’umorismo).
La
DICOTOMIA VITA/FORMA è di primaria importanza.
La vita è un flusso, appunto, è anche istinto: è irrazionale
perché è altro rispetto alla FORMA, alla prigione dove la vita “esterna” ti
richiude.
L’uomo, per vivere con gli altri, e purtroppo negli altri, prende
una FORMA. La parte razionale domina l’esistenza attraverso le MASCHERE che
siamo costretti a portare per avere un posto, poco importa che quel posto non
lo abbiamo scelto. L’uomo è destinato a NON VIVERE libero nella società; se
però togli la maschera… la SOCIETA TI MARCHIA.
Il paradosso sta nel non vivere perché si è solo maschere e nel
non essere più integrati nella società se quelle maschere scegliamo di
togliercele.
Vitangelo Moscarda, in conclusione, NON HA UNA IDENTITÀ perché ne
HA TROPPE. La sua ricerca dell’ipotetica verità diventa un uragano distruttore.
Chi sfugge le convenzioni viene MARCHIATO. Allo stesso modo,
quando nasci hai comunque il marchio delle tue origini e la gente ti veste di
convenzioni che divengono altre maschere: forse quelle più invisibili, e
pesanti.
Chi
sfugge alle convenzioni è un PAZZO. La pazzia è l’estrema costrizione, l’arma
definitiva del razionale strazio dell’esistenza nel mondo.
Vitangelo cerca di non essere più un usuraio e diventa, così, un
pazzo.
Il protagonista, alla fine, diviene profeta del suo nome:
VITANGELO, l’ANGELO ANNUNCIATORE della vita.
Se la vita è costrizione e finzione… allora quale vita, o via,
viene mostrata al lettore?
Innanzitutto va ribadito che non contano i FATTI ma la RIFLESSIONE
SUI FATTI. La narrazione umoristica è il mezzo per smontare le convenzioni e
far cadere “il sipario”. Il lettore è qui un testimone.
L’inconsistenza è la vera sostanza di questo romanzo, come di
altri testi dell’autore. Lo straniamento è una catarsi assai dolorosa da
provare. Nella storia ci sono molti temi novecenteschi come la messa in
discussione della proprietà o il conflittuale rapporto con la FIGURA PATERNA;
Pirandello mostra una visione negativa dell’immagine sacra della famiglia e del
matrimonio… ma anche la fuga da quest’ultimo non fa che rientrare in altri cliché.
Dov’è un attimo di respiro? Dove si può trovare l’autenticità?
La NATURA, ecco che arriva e da una coperta verde fino ai ricordi
di Vitangelo, si fa vedere per quello che è… non curante di come viene vista o
costantemente “ricostruita” dall’uomo.
Il paesaggio, gli alberi e l’erba assumono CONNOTATI MITICI. Per entrare
nell’unico autentico flusso del vivere di questa Natura idealizzata, però, si deve
RINUNCIARE.
Follia, scontro, alienazione: la via per la VITA UNIVERSALE non è
così facilmente metabolizzabile, per il lettore.
La volontà invischia l’uomo come le maschere. Zittire la volontà
di vivere, L’ASSENZA… questi sono i mezzi che vengono proposti da un
protagonista che non esiste più.
Il lettore, anche in quanto tale in senso stretto, legge nella sua
identità: è quindi semplice captare o essere d’accordo con questo “NIRVANA”
pirandelliano?
L’effetto finale è agghiacciante.
Tutto questo perché?
Perché è molto probabile che io che scrivo e voi che leggete… NON
SIAMO CONSAPEVOLI.
IN
CONCLUSIONE
Si è UNO perché tutti credono di essere unici con particolari
caratteristiche che percepiamo come nostre e univoche.
Siamo CENTOMILA perché siamo tante personalità quante sono le MASCHERE…
e di conseguenza ciò dipende anche da quante persone ci percepiscono (con le
proprie esclusive verità date per buone, si intenda!).
Alla fine siamo, però, NESSUNO: tra tutte le personalità, alla
fine, nulla resta.
BUONA
CONSAPEVOLEZZA…
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